Marcello Fiasconaro è stato un lampo, una luce intensa e irripetibile nel cielo dell’atletica azzurra. Ci ha lasciato ricordi preziosi, e uno in particolare non ce o toglieremo mai dalla testa. La notte magica dell’Sport e salute, quella data indimenticabile, 27 giugno 1973, e un record strabiliante che lasciò tutti stupiti e incantati. Quello degli 800 metri, un doppio giro di pista corso in 1’43”7, in solitudine, di forza e coraggio. Tanto in anticipo sui tempi da restare primato mondiale per tre anni, e fino ai giorni nostri miglior prestazione italiana di tutti i tempi. Avvicinata da Donato Sabia dopo undici anni, da Andrea Longo (1’43”74) addirittura nel 2000. Mai migliorata, da nessuno.
Dal rugby all'atletica
Papà Gregorio, italiano doc, musicista, era stato fatto prigioniero in Sudafrica dagli inglesi. Si innamorò di Mabel, incontrata a Pietermaritzburg, e decise di mettere su famiglia lì, diventando professore di musica alla Opera Company di Città del Capo. E lì nacque Marcello, nel 1949. Da ragazzo, interessato ovviamente più al rugby che all’atletica. Tra le fila del Villagers Rugby Club, lo andò a scovare Stewart Banner, presidente dell’Harriers Celtic Runners Club, che aveva avviato una stretta collaborazione tra le due società. Fu lui a plasmarne il talento, che sbocciò molto presto.
Il ragazzo si specializzò nei 400 metri, dove arrivò a sconfiggere diversi campioni affermati, come Donald Timm, gloria nazionale. Alla seconda uscita sulla distanza, a Coetzenburg, sparò un 46”6 che lo mise sotto i riflettori. E allora fu Carmelo Rado, discobolo di valore, trasferitosi per lavoro in Sudafrica, a segnalarlo alla Federazione italiana, che non perse tempo. Fiasconaro approdò in Italia, a Genova, già dotato di passaporto italiano, grazie ai natali di papà Gregorio. All’inizio non aveva nel repertorio che poche frasi di italiano, ma era dotato di una simpatia coinvolgente. E quanto alla pista, cominciò subito a far vedere quello che valeva.
Tra i grandi d'Europa
Alla seconda gara italiana, si mise addosso la maglia di campione italiano, e frantumò il record nazionale correndo in 45”7. Era nata una stella, quella che il panorama dell’atletica azzurra stava cercando. Ci fossero stati i social, all’epoca, “March” sarebbe diventato un fenomeno da studiare. Già così, era un catalizzatore di interesse e di entusiasmo. Il 15 marzo 1972, quando abbatté il record mondiale dei 400 indoor nel palasport di Genova, correndo in 46”1, c’erano diecimila appassionati sugli spalti del Palasport per vederlo correre, tanti quanti ne avevano richiamato i Beatles e i Rolling Stones qualche tempo prima. Perché lui era già diventato un idolo: capelli lunghi, baffi e basettoni come andava in quei primi anni Settanta, e quella canotta azzurra con lo stemma dell’Italia che indossava negli appuntamenti importanti, che in realtà era quella del Southern Transvaal, indossata alla rovescio, perché ci aveva vinto il titolo in Sudafrica ed era certo che gli portasse fortuna.
Prima del mondiale al coperto, aveva già firmato un’impresa, alla quale era mancato solo l’ultimo guizzo per diventare perfezione assoluta. Agli Europei di Helsinki del 1971, sul giro di pista gli avevano raccomandato di fare attenzione al polacco Jan Werner, e lui portò a termine il compito perfettamente. Ma quell’inglese, David Jenkins, diciannovenne alla prima grande esperienza internazionale, proprio non se lo aspettava nessuno ed era sbucato inatteso. E per quanto “March” avesse fatto di tutto per riagguantarlo, gli aveva portato via la medaglia d’oro per quattro miseri centesimi, 45”45 contro 45”49.
Notte magica
Un insegnamento, forse. Mai fidarsi, negli affari di pista. Marcello lo mette in pratica quella sera all’Sport e salute. È il 27 giugno 1973, e il racconto lo srotoliamo al presente perché certe immagini non hanno tempo, restano scritte nella storia.
“March”, sotto la guida di Banne e poi di Tito Morale, già da tempo ha scelto di raddoppiare la distanza, mettendosi alla prova nel doppio giro di pista. L’Arena napoleonica è il suo anfiteatro, come lo era stato 34 anni prima per Rudi Harbig, autore di un primato in anticipo sui tempi. Più che sera, è quasi notte: la gara inizia alle 22.30. Essendo una sfida tra rappresentative di Italia e Cecoslovacchia, l’avversario da battere è uno degli specialisti più accreditati a livello internazionale, Josef Plachy. Stavolta “March”non vuole sorprese. Parte davanti al primo metro, ci resterà fino al traguardo. Passaggi da sogno, in una notte magica: 25” ai 200, 51”2 alla campana, 1’16”5 ai 600. E fin qui, Plachy non ha mollato mai la sua scia. Ma proprio sull’ultima curva, il cecoslovacco comincia a mostrare segni di cedimento. Fiasconaro continua col suo ritmo travolgente, Plachy perde metro su metro, e si chiama fuori dalla lotta. Il rettilineo finale è una passerella maestosa, il crono sul traguardo è quello rimasto poi stampato sugli annali, per sempre: 1’43”7, record del mondo. Durerà tre anni e un mese, il primato di Marcello. Lo migliorerà Alberto Juantorena alle Olimpiadi di Montreal, nel 1976, correndo in 1’43”50 davanti a Ivo Van Damme, grande e sfortunato (morirà cinque mesi dopo in un incidente stradale, a ventidue anni).
Quell’impresa all’Sport e salute mostrò a tutti chi era Fiasconaro. Un atleta poderoso, un fisico d’acciaio temprato da anni di rugby, una falcata spettacolare, un coraggio da leone. Purtroppo, e questo nella notte del record non si vide, anche tendini troppo deboli per sopportare i carichi di lavoro che un primatista mondiale deve affrontare. Quando Juantorena batté il suo primato a Montreal, Fiasconaro già aveva chiuso con la corsa ad alto livello, non prima di aver tentato più volte un miracoloso ritorno.
Aveva solo ventiquattro anni, quando salì sul trono dell’atletica mondiale. E aveva messo in bacheca la medaglia d’argento di Helsinki, due primati mondiali, cinque titoli tricolori, in soli cinque anni vissuti da italiano. Tornò a provarci nel 1977, ma capì che non era aria. Tornò a Milano anche per vestire i colori della Concordia Assicurazioni nel massimo campionato italiano di rugby, poi fece ritorno in Sudafrica. Dove, appunto, è da sempre attivo nelle iniziative della comunità italiana. Perché non sarà nostalgia, ma un po’ di Belpaese gli è rimasto nel cuore. Un ricordo fatto di mille ricordi, con in cima a tutto quella sera quasi notte dell’Arena.