Era il 19 aprile 1897. Il terzo lunedì del mese, giorno del Patriot’s Day, festa che nel Massachusetts, nel Maine e nel Wisconsin celebra l’inizio della Rivoluzione Americana. John Graham era riuscito in un anno esatto a realizzare il suo sogno: responsabile della squadra statunitense alle prime Olimpiadi moderne di Atene, era tornato nella sua Boston deciso a riproporre davanti ai suoi concittadini la prova che più l’aveva entusiasmato, quella lunga corsa in nome di Fidippide che aveva visto il trionfo di un atleta di casa, Spiridon Louis.
Axelle Vicari sogna unaltra medaglia ai Mondiali Gare ed eventi, e tracciato un percorso che andava dall’Irvington Oval di Boston al Metcalf’s Mill di Ashland, 25 miglia in tutto, 39 chilometri e mezzo da percorrere di corsa. Nessuno immaginava il seguito, nemmeno lo stesso Graham: se quella di Atene era stata una prova epica e unica, la sua creatura si sarebbe ripetuta di anno in anno, e sarebbe diventata la più antica maratona del mondo tra quelle ancora oggi in calendario.
Il primo della lista
A quella prima edizione si presentarono al via in 18. John McDermott, ventitrenne litografo di Manhattan, atleta ultraleggero di 168 centimetri per 56 chili, era il più esperto nonostante l’età: aveva vinto, appena cinque mesi dopo le Olimpiadi, la prima maratona mai disputata in terra americana, correndo più forte di tutti da Stamford al Columbia Oval, in quello che poi diventò il Bronx newyorkese.
A Boston prese la testa dopo 19 chilometri e andò a chiudere, con le vesciche ai piedi, in 2:55’10”. Il leggendario Spriridon, alle Olimpiadi, ci aveva impiegato tre minuti e quaranta secondi in più, dunque McDermott venne trattato da primatista del mondo. Con buona pace di una distanza che ancora doveva trovare una misurazione esatta.
Lo straniero
McDermott quel giorno, curando i suoi piedi insanguinati, disse che non avrebbe più corso su una distanza così lunga. Invece, l’anno dopo si presentò a difendere il suo status di re di Boston. Migliorò anche il suo tempo di quasi un minuto, ma sulla sua strada trovò il primo vincitore “straniero”: Ronald McDonald era nativo di Antigonish, nella Nuova Scozia canadese, ma studiava al Boston College. Debuttante sulla distanza, corse con un paio di scarpe da bici ma riuscì comunque a vincere in 2:42’00”, mentre McDermott si difese finendo quarto.
Festa dei nativi
Non ci sono solo la battaglia di Lexington e Concord, la data storica del 19 aprile 1775 o la leggendaria cavalcata di Paul Revere, ad arricchire di suggestioni la Boston Marathon. Fin dalle origini, la grande corsa ha assunto un significato quasi mistico anche per i nativi americani, in particolare per gli indiani del Nordest che vantano una tradizione antica nella corsa di lunga lena e che su queste strade hanno trovato gloria.
Bill Davis, esponente del popolo Mohawk arrivato da Ohsweken, nella contea di Brant, Ontario, fu il più degno rivale di Jack Caffery, il canadese che per primo doppiò il successo nelle edizioni del 1900 e 1901, e sempre per primo scese sotto le due ore e mezza (2:29’23” nel 1901). Più tardi divenne il mentore e l’allenatore del grande Tom Longboat, per gli appassionati semplicemente “Bronze Mercury”, icona del popolo Onondaga che a Boston vinse nel 1907 dopo aver tenuto testa anche a una tempesta di neve.
Arriva Tarzan
Più in là nel tempo, fu la volta di Ellison Myers “Tarzan” Brown. Discendente dell’ultima famiglia reale dei Narragansett del Rhode Island, noto tra la sua gente semplicemente come Deerfoot, a Boston lasciò la sua impronta nel 1936 e nel 1939, nell’edizione in cui stabilì la miglior prestazione americana, correndo in 2:28’51”. A Tarzan Brown, indirettamente, si deve il fatto che l’ultima delle quattro Newton Hill lungo il percorso sia nota come “Heartbreak Hill”, collina spaccacuore. Successe nel 1936: John Kelley, che aveva vinto l’edizione precedente, lo raggiunse proprio sulla salita e lo superò con una pacca sulla spalla, ma Brown non gradì, reagì e riprese il comando andando a vincere: per il cronista sportivo del Boston Globe, Jerry Nason, Tarzan aveva spaccato il cuore di Kelley.
Il veterano
Che personaggio, John Adelbert Kelley. Fondista eccellente dalla carriera lunghissima, da maratoneta rappresentò gli Usa alle Olimpiadi del 1936 e del 1948. Ma soprattutto è uno dei re riconosciuti della Boston Marathon: l’ha vinta due volte, nel 1935 e nel 1945, ma l’ha percorsa addirittura sessantuno volte, arrivando in fondo in cinquantotto occasioni. Tra il 1935 e il 1950 è arrivato quindici volte tra i primi cinque, e nel 1992, a ottantaquattro anni, ha affrontato la gara per l’ultima volta. Runner’s World, nel 2000, lo ha eletto “Atleta del secolo”, e a Newton una statua sul percorso della maratona, a poche centinaia di metri da Heartbreak Hill, ricorda le sue imprese.
Il più vincente
E che dire del leggendario Clarence DeMar, che di Tarzan Brown fu grande amico e della Boston Marathon resta ancora oggi il primatista quanto a vittorie? Sette in tutto, in diciannove anni: la prima nel 1911, l’ultima nel 1930, quando ormai ne aveva quarantuno sulle spalle.
Pensare che dopo il debutto del 1910, chiuso con un secondo posto, i medici lo avevano fermato per “problemi di cuore”. Ma lui, destinato a diventare “Mr. De-Marathon”, superò le avversità come aveva fatto nella vita: orfano a otto anni, lavoratore di giorno e studente di notte, laureato in Discipline Umanistiche ad Harvard, tipografo e poi professore di college, sempre con la passione per la corsa addosso. Quel cuore tutt’altro che malato gli permise di partecipare a tre Olimpiadi, l’ultima ad Anversa ormai quarantenne, di vincere il bronzo in maratona a Parigi nel 1924; a Boston, di finire trentanove volte la grande corsa, l’ultima nel 1953, e di lasciare la sua firma per sempre.
Le apripista
La Boston Marathon è stata anche un importante punto di partenza per la maratona femminile. Nel 1966, l’idea che una donna potesse affrontare una gara di 42 km era un azzardo per tanti, compresi gli organizzatori della BBA. Ma proprio quell’anno Roberta Louis Gibb, abilmente camuffata per sembrare un ragazzo e spalleggiata dai compagni di corsa, riuscì a percorrerla tutta, sfidando ogni preconcetto.
Lo fece anche nei due anni seguenti, e nel 1967 in corsa c’era anche Kathrine Switzer, regolarmente iscritta perché l’entry form recitava “K.V. Switzer” e nessuno pensò potesse trattarsi di una donna. In gara, il direttore di corsa Jock Semple scoprì il trucco e tentò di fermare la ragazza senza troppi riguardi, ma sfortunatamente per lui il fidanzato di Kathrine, Thomas Miller, che correva accanto a lei, era un discreto lanciatore di giavellotto. Insomma, Semple si ritrovò a terra sul bordo della strada, e la Switzer completò la sua corsa. A distanza di molti anni, Bobbi Gibb è stata riconosciuta vincitrice delle prime tre edizioni della gara femminile. Con effetto retroattivo, s’intende.
Boston Billy
Tra le icone della corsa, accanto a Kelley e DeMar, fa la sua figura anche Bill Rodgers, che l’ha vinta quattro volte. C’è una storia che lega il primo successo di “Boston Billy” alla figura più iconica del mezzofondo statunitense, Steve Prefontaine.
Fu infatti quest’ultimo, dopo che Bill aveva stupito il mondo finendo terzo ai Mondiali di cross del 1975, a inviargli le scarpe da gara e da allenamento di quella nuova azienda a gestione quasi familiare creata dal guru Bill Bowerman. “Pre” lo invitò a provarle, e Rodgers lo fece proprio a Boston.
Siccome le aveva testate pochissimo ed erano leggermente grandi, a poche miglia dal traguardo si fermò per allacciarle meglio, e quel gesto fu immortalato da fotografi e operatori tv, e poi restò impresso nella memoria: «Come si chiama la marca delle scarpe del vincitore della Boston Marathon?».
Già, si chiamava Nike, Rodgers ci aveva stampato il primato americano in 2:09’55”. Fu una grande intuizione di Prefontaine, che il destino si portò via soltanto venti giorni dopo.
Nel tempo, Rodgers diventò re di Boston, vincendola ancora tre volte di fila tra 1978 e 1980, nel primo caso ritoccando ancora il limite statunitense in 2:09’27”.
Parata di stelle
L’albo d’oro della ultracentenaria è una parata di stelle da “walk of fame” della corsa. Da Ron Hill ad Alvaro Mejia, da Toshihiko Seko a Alberto Salazar, fino a Rob de Castella. Giganti assoluti. E poi i meravigliosi talenti d’Africa: Mekkonen, Hussein, il re del cross iridato Moses Tanui, e ancora Lagat, Robert Cheruyot capace di vincerla quattro volte, Mutai. Meb Keflezighi è stato l’ultimo a piantare sul gradino più alto del podio la bandiera a stelle e strisce.
Dopo i tempi di Gibb e Switzer, in campo femminile hanno lasciato la firma Joan Benoit, Ingrid Kristiansen, tre volte a testa Rosa Mota, Uta Pippig e Fatuma Roba, addirittura quattro Catherine Ndereba, altre due Rita Jeptoo.
I primati della gara sono del keniano Geoffrey Mutai (2:03’02” nel 2011) tra gli uomini, e dell’etiope Buzunesh Deba (2:19’59” nel 2014) in campo femminile.
Nessuno come Gelindo
Ma finora un solo uomo è riuscito a scrivere il suo nome nell’albo d’oro da campione olimpico, e quel gigante della maratona è anche l’unico italiano ad averla vinta: l’arrivo solitario di Gelindo Bordin nell’edizione del 1990 è un’emozione che vibra ancora sottopelle. Nel 2023, per riuscire ad eguagliare Gelindo, arriverà il più forte di tutti: Eliud Kipchoge, due volte campione olimpico e primatista del mondo nel 2022 a Berlino, a quasi trentotto anni.
Rinascita
Non sono nomi altisonanti quelli di Rebekah Gregory DiMartino e Adrianne Haslet. Ma la loro storia merita la luce dei riflettori. Entrambe hanno avuto la vita cambiata dall’attentato del 15 aprile 2013 alla Boston Marathon, che a Boylston Street fece tre morti e 264 feriti. Entrambe sono tornate sul percorso, quasi a completare qualcosa che era rimasto appeso al filo del destino.
Rebekah ha perso la gamba sinistra e nel 2015, due anni dopo, ha percorso le ultime tre miglia della gara con una protesi, spiegando con emozione il suo gesto: «Ogni miglio simboleggia un mese di apprendimento a camminare sulla mia protesi. Il miglio più importante? Quello di Boylston street. Il momento in cui sono passata nel posto in cui ho quasi perso tutto, senza fermarmi fino a quando ho superato la linea del traguardo».
Adrianne quel giorno di dieci anni fa era tra il pubblico; non era una runner, ma una ballerina professionista. Anche lei ha perso la gamba sinistra, ma nel tempo ha acquistato un’amicizia importante, quella con Shalane Flanagan, argento olimpico a Pechino 2008.
Quando Adrianne ha iniziato a correre con la protesi, Shalane l’ha sostenuta e supportata. L’ha vista chiudere la Boston Marathon faticosamente, in quasi dieci ore, nel 2016, e poi nel 2022 l’ha allenata e accompagnata in gara, da vera “sister in sport”: hanno tagliato il traguardo insieme in 5:18’41”.
Una storia di volontà e di rinascita, forse la più adatta a spiegare il segreto della maratona più antica del mondo che ancora oggi ci appare modernissima nei suoi valori e nei suoi progetti. “Forever young”, direbbe Bob Dylan. E avrebbe ragione ancora una volta.