All’inizio degli anni Ottanta, nessuno sembrava forte come “Deek”. Vederlo correre era uno spettacolo, le sue gambe esprimevano forse per la prima volta il concetto di potenza applicato alla maratona: lo aveva affinato nei lunghi allenamenti sulle colline intorno a Melbourne. Sono tanti i runners di quel periodo, professionisti ed amatori, che devono molto a Rob De Castella, alle sue gare che erano ragione e sentimento, rigore e creatività. Ci si ispirava semplicemente così: nel vederlo in azione, nel prevederlo davanti a tutti all’arrivo, perché in quegli anni quasi sempre sapeva interpretare la gara al meglio. Con un solo rammarico: quello di non essere mai riuscito a salire su un podio alle Olimpiadi, pur avendone disputate quattro, un primato di cui andare comunque orgogliosi.
Una macchina, insomma. Da raccontare per spot, mettendo in fila le origini della passione per la corsa, i primi successi importanti quando ancora sfoderava un look da reduce del megaconcerto di Woodstock, oltre ad alcune delle sue prestazioni più clamorose e indimenticabili. Andiamo a cominciare.
Incontro fortunato
Nato a Melbourne, nello stato australiano di Victoria, Robert Francois De Castella ha origini italo-svizzere e lo sport nel sangue: Rolet, suo padre, correva maratone già negli anni Cinquanta, mentre la madre Anne è stata una tennista di ottimo livello. Anche i fratelli Nicholas e Anthony collezioneranno un curriculum atletico importante, in particolare il primo, che parteciperà in carriera a quattro Mondiali di cross. Rob, anzi “Deek” come già tutti lo chiamano, si appassiona alla corsa appena undicenne, ma è poco dopo che fa l’incontro della vita, incrociando allo Xavier College quello che diventerà il suo allenatore per l’intera carriera, Pat Clohessy. Arrivano i primi successi in pista e nel cross, dove da junior si mette in tasca un titolo australiano.
Re del mondo
Ha soltanto ventun anni quando, nel 1978, vince il suo primo titolo nazionale sulla distanza di maratona, ad Herne Hill, in 2:13:23. E’ la seconda esperienza sulla distanza (aveva già debuttato a Point Cook in 2:14:44), e gli si apre davanti un mondo. Nel 1980 è a Mosca, e chiude la sua prima maratona olimpica al decimo posto, niente male per un ventitreenne. Ma il grande colpo lo fa un anno dopo a Fukuoka, maratona tecnica e quotatissima: “Deek” la vince con un tempo clamoroso, 2:08:18, e se ne va dal Giappone convinto di aver strappato il primato nazionale a un grandissimo, Derek Clayton. Peccato soltanto che Alberto Salazar a New York abbia corso cinque secondi più veloce, un’inezia che vale la miglior prestazione mondiale. Ma pochi giorni dopo arriva la notizia più incredibile: nella Grande Mela il percorso era quasi centocinquanta metri più corto, e De Castella è il nuovo primatista del mondo. Resisterà fino al 1984, quel limite.
L'impresa
Altra scena. Brisbane, capitale del Queensland australiano, in scena la maratona dei Giochi del Commonwealth 1982. Una quarantina di atleti sulla linea di partenza, De Castella favorito per via del crono clamoroso di Fukuoka. Ma ci sono anche il gallese Steve Jones, i tanzaniani Juma Ikangaa e Gidamis Shahanga, clienti difficili. E infatti sono i due africani ad involarsi appena dopo lo start, tenendo un ritmo forsennato e accumulando un vantaggio che a metà gara si direbbe incolmabile. Al trentesimo balla ancora un minuto tra battistrada e inseguitori, “Deek” non vede i due là davanti e gli resta una sola cosa da fare: “Cambiare ritmo e correre più veloce di loro. Non sapevo se li avrei ripresi, ma sono andato avanti con questa consapevolezza: stavo recuperando”.
La sua corsa diventa inarrestabile. Aggancia Shahanga ormai spento (finirà al sesto posto) e al chilometro 37 raggiunge anche Ikangaa. Che però non molla: ne nasce un testa a testa che emoziona il pubblico lungo Coronation Drive per quasi tre chilometri. Fino a quando Ikangaa cede, e “Deek” prende il largo piombando festante sul traguardo di Stanley Street. Una leggenda come Ron Clarke definisce la gara “the greatest marathon ever”. Qualunque sia il giudizio tecnico, De Castella ha inchiodato alla televisione tutta l’Australia.
Sul trono
Cambio di fondale. Helsinki 1983, prima edizione dei Campionati Mondiali di atletica leggera. Stavolta i partenti sono ottantuno, ci sono tutti i migliori. Si corre sul filo della tensione e la classifica finale lo dimostrerà: crono sopra le due ore e dieci, ma sei maratoneti sotto le due e undici e addirittura tredici sotto le due e dodici (tra cui due italiani, Gianni Poli settimo e Marco Marchei tredicesimo). Il finale di “Deek”, che in realtà nell’ambiente hanno iniziato a chiamare anche “Tree”, per la solidità caratteriale e per quelle gambe che sembrano tronchi di quercia, è un capolavoro: l’ultimo a capitolare è il trentaduenne etiope Kebede Balcha, mentre il bronzo se lo mette al collo una leggenda, il due volte campione olimpico Waldemar Cierpinski.
Gran finale
Altra scenografia, ma stesso anno. Alla maratona di Rotterdam si sfidano finalmente i due grandi protagonisti della specialità dei primi anni Ottanta, Rob De Castella e Alberto Salazar. E c’è anche il portoghese Carlos Lopes, che si è dato alla 42 chilometri un anno prima, alla bella età di trentacinque anni. E’ lui, in effetti, a dare più filo da torcere a “Deek”, che confeziona un’altra gara perfetta chiudendo in 2:08:37, record della corsa a soli diciannove secondi dal personale. Lopes finisce due secondi dopo. E’ una volata che, come sempre quando c’è di mezzo l’australiano, resterà nell’immaginario collettivo degli amantI della specialità. Salazar è fuori dalla lotta e finisce quinto dopo un minuto e mezzo.
Longevità
Sono questi i capolavori indimenticabili. Ma il corollario è da fuoriclasse assoluto. A partire dalla seconda partecipazione olimpica, Los Angeles 1984. Anche in questo caso una maratona corsa con i favori del pronostico, ma non al top della condizione, e compromessa da una disattenzione al trentatreesimo chlilometro: De Castella rallenta al rifornimento proprio nel momento in cui si accende l’azione risolutiva che porterà sul podio proprio il portoghese Lopes, vincitore a trentasette anni, insieme all’irlandese Treacy e all’inglese Spedding.
Le scintille continuano ad accendersi fino agli anni Novanta. C’è il trionfo a Boston del 1986, col personale di 2:07:51, terza prestazione mondiale di sempre all’epoca, in una annata felice che gli assicura anche il bis ai Giochi del Commonwealth a Edimburgo e il secondo posto sulle strade di New York; c’è il quarto posto a Tokio nel 1988, ancora con un crono importante, 2:08:49; c’è il bis a Rotterdam nel 1991; soprattutto, ci sono altre due partecipazioni olimpiche, con l’ottavo posto a Seul nel giorno del trionfo di Bordin e il ventiseiesimo a Barcellona nel 1992.
Il grande sogno
Oggi per “Deek”, leggenda dell’atletica che l’Australia non dimentica, l’atletica e la maratona non sono ricordo e nostalgia. Dopo aver diretto per anni l’Istituto Australiano dello sport e avviato attività commerciali di successo, come la catena di panetterie e coffee bar “Deeks”, si è impegnato in un affascinante progetto di cui è direttore, l’Indigenous Marathon Project. “Nel 2010 un documentarista mi ha chiesto: per arginare il dominio africano, potremmo trovare talenti aborigeni nel nostro Paese? Ho pensato che gli indigeni australiani hanno la corsa nel Dna. Ho viaggiato nel cuore della mia nazione per trovare il primo gruppo di ragazzi da portare alla New York Marathon, ma mi sono imbattuto in problematiche ben più grandi: nell’Arnhem Land, nel Kimberley, nel deserto centrale ho toccato con mano problemi di morte prematura, disfunzione sociale, malattie croniche, problemi di salute mentale: la situazione della comunità indigena è una vergogna nazionale. Ho coltivato orgoglio e speranza in questi giovani, perché senza quelli si è nullatenenti. E quando sotto il traguardo di Central Park, nel 2010, ho visto passare i primi quattro talenti aborigeni, Juan Darwin e Joseph Davies, Caleb Hart e Charlie Maher, ho capito che abbiamo l’opportunità di guidare un vero mutamento sociale. Vale più di qualunque medaglia d’oro”.