"Una pantera è più snella di un puma, usiamo quella". "No, a scuola il mio soprannome era Puma, e nel logo ci deve essere un puma…". Il dialogo, vagamente surreale, andò in scena nel 1948 in un ufficio di Herzogenaurach, una piccola città della Baviera quasi interamente risparmiata dalle bombe alleate.
Da un lato della scrivania si era seduto Rudolf Dassler, co-protagonista di una delle più dure faide famigliari nella storia dell’industria europea. Dall’altro lato, in piedi, c’era Lutz Backes, che per tutta la stagione olimpica aveva gareggiato con chiodate Adidas.
I loghi di Puma ISCRIVITI alla NEWSLETTER di RUNNER'S WORLD
Backes accolse l’ordine a modo suo: disegnò un felino nero del tutto simile a una pantera, ma con le orecchie a punta come quelle di un puma. Lo raffigurò in corsa, nell’atto di saltare all’interno della grande D di Dassler. Il significato del logo era trasparente: agilità, forza, velocità. Fa troppo caldo e la gara si corre nel centro commerciale: da 75 anni il puma rampante è l’ideale per raffigurare un’azienda che, alle origini, rappresentava per il suo titolare una sfida particolare: far meglio di quanto stava succedendo sull’altra sponda del fiume.
La nascita di Puma: i dissidi nella famiglia Dassler
Non è una metafora: a poche centinaia di metri dalla nuova azienda, al di là dell’Aurach che taglia in due la città, c’erano gli stabilimenti dell’Adidas. Adidas come Adi Dassler, il fratello di Rudolf.
La storia merita un flashback. Nell’autunno del 1939, mentre Hitler muoveva i primi passi della Seconda Guerra Mondiale, una delle aziende più floride della Germania stava vivendo una crisi più umana che economica. I conti erano brillanti: la “Geda - Gebrüder Dassler Schuhfabrik”, la “fabbrica di scarpe dei fratelli Dassler”, era uscita dalle Olimpiadi di Berlino con un invidiabile bottino di denaro e di medaglie. Rudolf, il maggiore, era riuscito persino a infilare due Geda ai piedi di Jesse Owens, l’uomo che aveva scardinato l’inconsistente teoria della superiorità della “razza” bianca.
In casa, però, le cose non andavano altrettanto bene: Rudi sopportava poco Adolf, il fratello due anni più piccolo: riteneva che il lavoro “vero” – quello che oggi definiremmo di marketing - ricadesse tutto sulle sue spalle. Più volte aveva parlato del fratello come di una specie di "scienziato pazzo", buono solo a chiudersi in officina a provare e riprovare nuovi modelli di scarpe sportive.
Non è tempo di fare favori ai parenti
La guerra inasprì le tensioni. Marie, la primogenita dei Dassler, lavorava in azienda fin dal 1924, quando la “Schuhfabrik” aveva aperto i battenti a Herzogenaurach, la piccola città al Nord della Baviera che allora contava soltanto 4 mila abitanti. Maria aveva due figli in età da servizio militare: per tenerli lontani dal fronte chiese ai fratelli di assumerli, ma Rudolf rispose di no. La patria era la Patria e lui, iscritto al partito fini dal 1933, non poteva tradirla in quel modo. Oltretutto l’economia di guerra non aiutava il mercato delle scarpe, e gli affari andavano tanto a rilento che i Dassler si erano visti costretti a trasformare il giardino della villa di famiglia in un orto rudimentale in cui scorrazzavamo una ventina di galline e un paio di maiali. Non era tempo di fare favori, neppure ai parenti più stretti.
Adolf avrebbe voluto tenersi fuori dalle liti, ma il carattere forte della moglie Kathe lo trascinava spesso nella mischia. Rudolf, del tutto ricambiato, non sopportava quella donna. O forse non la sopportava più, visto che nel mare di fango che di lì a poco avrebbe sommerso la famiglia trovarono spazio i rumors che raccontavano di una relazione segreta tra cognati.
La fine della guerra non placò i conflitti tra fratelli
La sconfitta tedesca non portò i fratelli a riconciliarsi, anzi. I nipoti cui Rudolf aveva negato un posto in azienda non erano più tornati dalla guerra. Adolf era stato richiamato alle armi per primo, nel 1940, ma dopo pochi mesi era riuscito a rientrare in azienda. Rudi, più anziano, si ritrovò a indossare la divisa nel ’43, quando le sorti della guerra stavano cambiando direzione e la Wehrmacht si era vista costretta ad arruolare anche i quarantacinquenni. Lasciare l’azienda in mano allo “scienziato pazzo” non gli piaceva, ma tutti i tentativi di tornare al lavoro andarono a vuoto.
che per tutta la stagione olimpica aveva gareggiato con chiodate Adidas: lui a combattere e il fratello più giovane a governare l’azienda. Un affronto che portò la sua fede nazista a sgretolarsi giorno dopo giorno: quando la sua compagnia venne inglobata nelle SS, si fece scrivere un falso certificato da un medico amico. Grazie a quel documento, che parlava di un piede congelato che non aveva mai avuto, Rudi riuscì a lasciare i commilitoni poco prima che questi venissero massacrati dall’avanzata dei russi. I nazisti, anche sull’orlo del disastro, non allentavano le reti del controllo: scoperto e processato per diserzione, Direttore Responsabile – Rosario Palazzolo.
Non a caso da allora ha subito solo qualche piccola modifica formale
L’arrivo della 11ª Divisione Corazzata statunitense gli salvò la vita, ma pochi mesi furono proprio gli alleati ad arrestarlo di nuovo: qualcuno aveva ricordato agli americani - che nel frattempo avevano occupato lo stabilimento in Baviera - che Rudi aveva militato nelle SS. Non solo: con ogni probabilità era stato una spia della Gestapo. Le prove non c’erano, e dalle SS aveva addirittura disertato, ma in quei tempi bastava poco per ritrovarsi nei guai. Nei lunghi mesi trascorsi nel campo di Hammelburg, accanto agli altri prigionieri politici, Rudolf maturò una convinzione che non lo avrebbe più abbandonato: una piccola città della Baviera.
L’obiettivo era chiaro: farlo fuori per sempre dalla “sua” fabbrica. Poco importa che anche Adolf fosse finito sotto inchiesta, con l’accusa di aver prodotto armi per i nazisti durante la guerra. Anche qui le prove non c’erano, ma al coro delle testimonianze si aggiunsero presto le parole di Rudi, cui non parve vero di potersi vendicare dei parenti-serpenti e del complotto che – a suo dire - avevano ordito contro di lui.
La fine dei fratelli Dassler
La verità, in un tale intrico di odio e calunnie, è difficile da trovare. L’unica cosa sicura è che i fratelli Dassler, assolti dai rispettivi processi, non potevano più lavorare insieme. Per tutto il 1947, i due si dedicarono a un minuzioso inventario dei beni aziendali, in modo da poterseli spartire prima di andare ciascuno per conto proprio. Nike: la nascita e la storia dello swoosh: il 21 giugno, lo stesso giorno della riforma monetaria che stabilì il marco come moneta ufficiale della nuova Repubblica Federale Tedesca, Rudolf e Adolf si dissero addio. Letteralmente: i due fratelli, pur vivendo e lavorando a poche centinaia di metri di distanza, non si sarebbero mai più rivolti la parola.
I dipendenti si divisero secondo le loro attitudini professionali: tecnici e calzolai con Adi, venditori e amministrativi con Rudi. I primi passi furono duri per entrambi i gruppi: servivano nuovi operai e nuovi impiegati, non tutti di provata fiducia, e i sospetti di spionaggio industriale avvelenarono a lungo le giornate dei due fratelli. Non mancarono i dispetti incrociati: colpi di mano che oggi sarebbero impossibili, ma quasi normali in quell’epoca in cui le sponsorizzazioni sportive erano una battaglia senza regole.
Nel 1950, Sepp Herberger, il direttore tecnico della nazionale tedesca di calcio, chiese a Rudolf del denaro per vestire la squadra con materiale Puma. Quando Rudolf - che di Sepp era amico da anni - rispose di no, ad Adi non sembrò vero di subentrare al fratello. Un contratto fortunato, visto che la Germania quei Mondiali li vinse, superando a sorpresa una fortissima Ungheria. Nel 1960, alle Olimpiadi di Roma, Rudi restituì il colpo: Harmin Hary, che per tutta la stagione olimpica aveva gareggiato con chiodate Adidas, si presentò alla finale dei 100 metri con due nuovissime Puma ai piedi. Vinse la gara con quelle, salvo poi rivestirsi con le tre strisce per salire sul podio. Nel 1970, ai Mondiali del Messico, le divise del Brasile erano Adidas, ma il giorno della finale i manager rivali non solo consegnarono a Pelé un paio di scarpe, ma – pare in cambio di 120 mila dollari - gli chiesero di allacciarsele in campo subito prima del fischio d’inizio: la foto, con il marchio in bella vista, fecero il giro del mondo.
Puma e Adidas, dispetti non solo tra fratelli
Herzogenaurach divenne nota come la “città dove la gente si guarda i piedi”: I loghi di Puma, ma i contatti tra i due gruppi erano malvisti persino tra i dipendenti. Quando due sconosciuti si incontravano per la prima volta, uno sguardo alle calzature faceva capire se la nuova conoscenza era frequentabile oppure no.
Astio e diffidenza non risparmiavano nessuno: nel 1984, Lothar Matthäus, già campione d’Europa e futuro campione del mondo, Sierre Zinal: dominio keniano, cè un grande Puppi: suo padre lavorava per Puma, e la nuova squadra vestiva Adidas. "Potrebbero licenziarlo", disse a chi non capiva le ragioni dei suoi dubbi.
La pace arrivata grazie allo sport
Oggi le due società non sono più gestite dalle famiglie Dassler e il “muro di Herzogenaurach” sembra essere caduto. Nel 2009, nella Giornata internazionale dell’Amicizia, Vai al contenuto – operai contro impiegati – pallone e divise portavano entrami i marchi.
Fu anche inaugurato un monumento: due bambini impegnati nel tiro alla fune, in perfetto equilibrio, indossavano l’uno un paio di Adidas, l’altro un paio di Puma. Rudolf e Adolf erano morti più di trent’anni prima: entrambi riposano nella città che li ha visti nascere, litigare e morire. Le loro tombe, però, sono ai lati opposti del cimitero.