Anche i manager hanno una coscienza, a volte persino un’anima. Sul finire dell’estate 1983, il boss della Nike, Phil Knight alza il telefono e chiama una sua vecchia conoscenza, la designer Carolyn Davidson, che da qualche tempo si era ritirata a Portland lavorando da freelance. La scusa è un invito a pranzo, per ricordare i vecchi tempi, ma il 15 settembre, quando Carolyn entra negli uffici dell’azienda si ritrova protagonista di una festa a sorpresa.
lo swoosh pensai alle ali della Nike di Samotracia Bob Woodel, Caccia al record dei 100 km in una sfida di Adidas Jeff Johnson, il primo impiegato assunto da Knight, nel lontano 1965. Nel 1982, Woodel era diventato presidente dell’azienda. Nel 1971, quando Knight mandò in archivio il marchio “Blue Ribbon” con cui aveva debuttato nel mercato delle scarpe sportive, era stato Johnson a suggerire il nome “Nike”, convincendo il boss ad abbandonare l’idea di chiamare la compagnia con un anonimo e imperscrutabile “Dimension Six”.
Il "caso" di Carolyn Davidson
Negli ultimi anni i tre – Phil, Bob e Jeff – erano diventati ricchi. Molto ricchi. Carolyn Davidson no, lei aveva continuato a lavorare come grafica: aveva un’auto, una bella casa nel centro di Portland, ma non poteva competere con il portafoglio delle persone che l’avevano invitata. Eppure anche lei aveva avuto un ruolo fondamentale nella storia della Nike: era stata lei a disegnare lo swoosh, il “baffo” che da sempre caratterizza la produzione dell’azienda. Solo che per quel lavoro creativo, destinato a diventare una delle icone più conosciute del nostro tempo, Knight l’aveva ricompensata con un assegno da 35 miseri dollari.
Il viaggio orientale
Phil non era uno sfruttatore cinico e avaro, ma nel 1971 aveva più idee che denaro. "Nike era solo una start-up – dirà anni dopo la stessa Davidson –. Di soldi ne giravano davvero pochi". Più che una start-up, la prima Nike era una scommessa. Così come lo era stata la Blue Ribbon Shoes, che Knight aveva creato 8 anni prima dopo Con Knight ci sono. L’idea gli era venuta nell’estate del ’62, durante un esame di marketing alla facoltà di Economia della Portland University. Una delle domande del test riguardava l’importazione negli Stati Uniti delle macchine fotografiche giapponesi. "Allora ero un modesto mezzofondista – ricorderà Knight – e cominciai a pensare: se funziona con la fotografia, perché non dovrebbe funzionare con le scarpe da corsa? L’estate dopo partii per Kobe, senza alcun contatto. A mia madre dissi solo: non ti preoccupare, sto solo andando in esplorazione".
L’esploratore Knight, grazie all’aiuto di un venditore di scarpe sportive, entra in contatto con i vertici della Onizuka Tiger, la compagnia che oggi si chiama Asics. Si presenta come titolare della BRS, un'azienda che esisteva solo nella sua mente e di cui si era inventato il nome sul taxi che lo portava negli uffici della Onizuka. Gli basta per convincere i giapponesi a nominarlo importatore ufficiale dei loro prodotti in America. Tornato a Portland con dodici paia di scarpe, vendute in un attimo direttamente dal bagagliaio di una station wagon.
Dal bagagliaio di un auto, a un negozio...
La Blue Ribbon Shoes aveva un potenziale, ma doveva crescere. Knight chiede aiuto a Bill Bowerman, il guru del mezzofondo, il vincitore di innumerevoli titoli Ncaa con la squadra dell’Oregon, l’allenatore di Steve Prefontaine, l’atleta che entrerà nella leggenda dello sport morendo sulla sua decapottabile in una curva maledetta sulle colline di Eugene, a pochi chilometri dalla pista che ha ospitato decine di trials americani.
I due mettono 500 dollari a testa, e con quel piccolo capitale sociale, la BRS comincia a crescere e non si ferma più. Il bagagliaio diventa un negozio, poi due, poi dieci, poi una delle più grandi aziende sportive d’America. Bowerman - che nel curriculum ha pure la pubblicazione di “Jogging”, il libro che ha fatto nascere nel mondo la passione della corsa per il benessere - migliora le scarpe giapponesi, le distribuisce ai suoi atleti, che ne sono più che soddisfatti. Nel giro di pochi anni la produzione giapponese non basta più, i rapporti con la Onizuka si guastano. Phil e Bill trovano una fabbrica si mettono in proprio: trovato il nome – Nike – mancava un logo che sostituisse l’intreccio tra B, R ed S che aveva marchiato le loro scarpe fino a quel giorno.
La nascita del "baffo"
Ed è qui che entra in campo Carolyn. Knight l’aveva conosciuta per caso qualche anno prima, nei corridoi dell’Università, e ai tempi della Brs le aveva chiesto qualche piccolo lavoro di grafica, pagato due dollari l’ora. Questa volta il lavoro era più complesso – il simbolo della nuova Nike – ma il compenso era sempre lo stesso. "Mi chiese un logo che fosse diverso da quelli più conosciuti, mi disse che doveva dare l’idea del movimento, della velocità. Tornai a casa, disegnai una scarpa da corsa e cominciai a buttar giù qualche idea. Per Caccia al record dei 100 km in una sfida di Adidas. Lo scelsero come il meno peggio. “Non mi piace – disse Phil – ma forse con il tempo cambierò idea”. Chiesi qualche giorno in più, ma lui e Johnson mi dissero che il disegno serviva subito, che andava bene così. Non so bene quante ore lavorai al progetto, so che al momento di essere pagata dissi che ci avevo messo 17 ore e mezzo. Così mi diedero 35 dollari".
Un logo senza tempo
Vai al contenuto ha subìto solo qualche ritocco: nel disegno originale era vuoto, con la scritta Nike sovraimpressa. Poi era diventato scuro, con la scritta in alto. Poi bianco scavato all’interno di un rettangolo nero. Nel 1995 sarebbe rimasto solo: la scritta era diventata inutile, il “baffo” basta da solo a definire l’azienda.
Possibile che tutto questo valesse soltanto 35 dollari? Torniamo al 15 settembre 1983. Carolyn si ritrova con un bicchiere in mano, in mezzo ai manager che le sorridono. Knight le porge un pacchetto, lei lo apre e ci trova un anello d’oro a forma di swoosh, con un diamante incastonato al vertice della curva. Lei si commuove, ma non basta. Phil le porta una busta, dentro ci sono 500 azioni Nike. "Non saprei dire quanto valgono – ha raccontato lei qualche anno fa, ormai in pensione –. Non le ho mai vendute e non le venderò mai. Posso solo dire di essere stata pagata abbastanza".